Dubitate di tutto, anche del vero amore.
Questa non è una recensione: "Wellness", Nathan Hill (Rizzoli, 2024)
Ogni tanto, qualche persona che mi vive accanto, tra un pensiero e una sconfitta o un nuovo lavoro o un mobile nuovo in arrivo, mi racconta che ha scaricato (per la prima volta o ancora) una dating app. “Com’è?” chiedo sempre ad un certo punto. “Come ti trovi? Come sta andando?” aggiungo.
Così quando un’amica - perché spesso sono amiche ma non sempre - inizia a raccontarmi dell’avventura virtuale di trovare qualcuno con cui passare il tempo o trovare un amore (“Un amore vero vero, Esp, capisci?”), io metto da parte la perplessità e mi fiondo dentro al racconto. Dettagli e frasi stupide, baccagli assurdi, biografie stellari, opinioni controverse sparate per impressionare e primi appuntamenti che sanno di fragola o naftalina.
Io non mi ci sono mai iscritta a una dating app.
Non è pregiudizio, non è repulsione e nemmeno essere schizzinosa. A me l’idea di farmi trovare interessante o amabile con un’immagine o con le parole mi terrorizza e mi allarga la vergogna.
Un po’ perché con le parole ci lavoro, un po’ perché pensavo che fare la scrittrice potesse salvarmi dalla mia immagine sbattuta in giro (pensiero che ho scoperto essere fallimentare fin troppo presto, ahimè!).
Ci sarebbero un sacco di altre motivazioni. Le immagino come un filo di perle che si sgrana proprio a fine serata, spargendo tutte quelle piccole luci sul pavimento intonso di una casa che non conosco, come monito, avvertimento.
Ma più delle parole che non saprei usare su di me e per me, più dell’imbarazzo di espormi tramite uno schermo per qualcosa di così sottile e delicato, c’è sempre stata quella cosa impalpabile della mia idea di amore e di quanto ci credo e di come l’ho sempre immaginato.
Poi è arrivato “Wellness” di Nathan Hill.
Partiamo da un punto fermo e luminoso: io dell’amore non so niente.
Ma niente di niente, zero.
Tipo che non saprei nemmeno da dove iniziare a parlarne e ogni volta che finisco dentro a una storia (mia, immaginata, scritta, cantata o ripresa) precipito, perdo i pezzi, fiorisco fuori stagione e sbaglio. Tutto quanto insieme.
Eppure, ci sono certi momenti, alcuni giorni dell’anno, frammenti di minuti in cui sono certa di sapere esattamente cosa sia. Senza doverlo spiegare, senza recuperare alcuna definizione.
Per questo quando ho letto “Wellness” ho provato la sensazione di essere dentro a una bolla che non sapevo dove mi stesse portando. Durante la lettura fluttuavo, vagavo per aria e non mi preoccupavo di dove stessi andando.
Leggevo e basta, ritrovandomi con gli occhi languidi a pagina 17, perdendomi a pagina 241, rimanendo incantata a pagina 316 con il racconto dell’albero genealogico più bello della storia tra i libri che ho letto, o a pagina 632 per il fuoco che si prende tutto o, ancora (e sempre), per la vita che cede il passo ad altro e diventa frase piccola come da pagina 599.
Jack ed Elizabeth vivono in due edifici vicini, così vicini che possono spiarsi reciprocamente e lo fanno. Per giorni, per notti infinite si spiano e si chiedono l’uno dell’altra che vita nascondono e i segreti, le briciole, le storie e i sogni. Lui parla con le fotografie, lei respira con la fuga in testa. Lui dal Kansas con le gambe magre, un lutto nel sangue che non sgorga più ma fa ancora male e il cuore gonfio che quasi esplode; lei nomade di terre e di amore, che studia tutto quello che può con l’idea di diventare qualcosa tranne ciò da cui proviene. Hanno vent’anni, hanno amici artisti, vanno ai concerti, fingono che la ricchezza non sia potere, vogliono dubitare di tutto e nella Chicago degli anni Novanta ancora si può. Si conoscono così: sotto palco, le casse che squarciano i timpani, le mode pesanti, le droghe leggere e viceversa. Si amano così: subito e profondamente. Si trovano e si legano con ciò che gli rimane delle radici recise, dalle praterie bruciate e dalla grande idea di amore che resisterà a tutto. Proprio a tutto?
“«Mio Dio» dice con un tono che blocca la sua avanzata.
«Sei un'idra di emozioni, Jack. Sei un pozzo senza fondo di bisogni.
«Elizabeth, tesoro.»
«Metti in scena questo grande spettacolo romantico, ma alla fine sei solo un bambino che vuole avere attenzione. Sei un ragazzino spaventato che si aggrappa alla prima persona che abbia mai mostrato interesse: io.»
«Non è giusto.»
«Hai mai pensato che sposare una ragazza ricca voleva dire che non eri il rozzo campagnolo che hai paura di essere in realtà?»
«Okay, e tu hai pensato che sposare un artista voleva dire che non eri la roccia senza cuore che hai paura di essere in realtà?»
«Forse» annuisce Elizabeth. «E poi magari ci siamo cullati in una storia che ha fatto sembrare il tutto eroico. Ma è ora di affrontare la realtà, Jack. Abbiamo un matrimonio placebo. Ci ha fatto sentire bene per un po', ma in fondo qui non c'è niente. E, probabilmente, non c'è mai stato.»”
Vent’anni dopo Jack ed Elizabeth sono sposati, sono la rappresentazione della funzionalità e la distruzione parziale dei sogni della loro giovinezza. Vent’anni dopo il mondo è spietato, le fotografie non bastano per vivere e lui insegna, lei non ha mai smesso di fare ricerca su tutto ma le persone e ciò in cui credono le hanno dato un impiego e un senso. E poi c’è la rete. Un’immensa possibilità di storie, di vite e di strade per perdersi ma anche un bosco fitto che intrappola e rapisce.
Vent’anni dopo Chicago non è più la stessa, gli amici di un tempo sono andati via o si sono messi a fare loschi affari. Hanno un figlio: Toby. Hanno un matrimonio sgualcito con cui continuano a ferirsi. Non sanno se tutto quello che hanno sempre tenuto stretto è da lasciar andare, così per provare a non perderlo adesso vogliono una casa più grande, una casa vera, una casa per sempre.
Li ritrovi così i due innamorati della Chicago della ribellione.
Stanchi, sfatti, stupiti e travolti dalla vita adulta, dalle incombenze, dai soldi che non bastano, da un figlio che dovrebbe stare meno al tablet e più tra i suoi coetanei. Una donna e un uomo allo sbaraglio che non sanno come dirsi “sono arrivato al capolinea e alla fine di questa corsa estenuante e densa di ostacoli non ti vedo più”.
Una storia d’amore lacerata dal silenzio, dai buchi del passato che sono solchi e non si possono nascondere ma non si dicono e crescono. Forse non perché non si vuole, ma perché non si conosce il modo. E poi i fantasmi dei morti, dei torti, dei tatuaggi e delle vite che sarebbero potute essere e non sono state. Tutto nella sconvolgente e instancabile corsa che è la vita, che è il dover a che fare con gli altri, mostrarsi agli altri, forzarsi ad essere forti, impeccabili, ragionevoli, equilibrati, sani, reali.
“Wellness” di Nathan Hill edito per Rizzoli è un libro più che buono perché strattona e non accompagna, interroga e non risponde e poi per fortuna non è solo il grande romanzo nordamericano basato su una storia d’amore.
Il sentimento c’è, la sua storia pure. Oserei dire in una delle visioni più scientifiche che io abbia mai trovato dentro un libro narrativo (la bibliografia delle ultime pagine mi ha fatto brillare gli occhi; non leggerò mai tutti quei libri, diciamolo, ma sapere che l’autore si sia preparato così bene per scriverne uno, da lettrice, mi fa sentire lusingata. C’è stata cura, viva!).
Eppure quello che fa Wellness è parlare di noi come esseri umani.
Parla dei colpi di fulmine e colpi di fortuna.
Parla di dubbio e invisibilità, di quanto fanno paura e di quanto ci affanniamo per sfuggirli ogni santo giorno.
Parla anche di chi a cinque anni diceva “da grande avrò una famiglia tutta mia e sarà bellissimo” e poi a 30 l’ha avuta davvero ed è stato stupendo, ed è stato un disastro.
Parla di chi ha trovato un lavoro parlando con persone che non incontrerà mai dal vivo, dei forum in cui nel 2009 qualcuno aveva una seconda famiglia più vera di quella biologica, parla della perdizione della rete e del famoso odio online che a volte non si spiega perché per farlo bisognerebbe rompere gli schermi.
“Wellness” parla del bisogno estremo di credere che quel primo appuntamento ne porterà un secondo e magari un terzo, e poi un bacio, una vacanza di due giorni, una notte in un letto al sicuro con qualcuno che ti stringe e ti assicura il bene futuro.
Parla della gentrificazione, delle sorelle maggiori che ci hanno regalato poster che erano finestre aperte sul mondo, di genitori che chiedono scusa su Facebook e del male che a volte si accompagna con il bene e non si vede.
E pure di quella canzone di Barriera che dice “Vеronica sogna le notifiche / di tutta gentе un po' speciale/ E alla fine di quel sogno / resta solo solo solo solo / Solo un messaggio / da visualizzare” e contiene tutta la solitudine di oggi dove, a volte, l’unica cosa che ci rimane è cercare un bacio ovunque. Dietro vetrine virtuali, dentro a spunte blu o fuori, al freddo, nei silenzi terrificanti di chi scompare senza dire niente.
Ma “Wellness” parla pure di me che la prima volta in cui ho detto “ti amo” l’ho fatto per SMS sul letto a soppalco più giusto per vedere cosa mi provocasse e non provai niente come sospettavo. Di me che i buchi in pancia li riempivo come avevo imparato la seconda volta in cui mi hanno insegnato l’amore. Di me che pensavo che per piacere dovevo sparire; che sono stata raccolta con un cucchiaino in un angolo del parco Santa Chiara di Trento; che molte volte ho detto “sì” e pensavo “no” con tutta me stessa ma che fatica parlare; che gli avevo dato tutto il cuore e tutta la fede; che poco lontano da quella fermata della metro che mi faceva ridere gli ho detto “così non posso” e sei giorni dopo era ancora così, e mesi dopo Roma è ancora quel dolore lì.
«[…] Quello di cui Jack ha davvero bisogno è l'illusione della sicurezza, l'illusione che non verrà mai più ferito.»
«Ma perché è un'illusione? L'amore non è reale, a volte? Non ci sono alcune persone sposate che sono davvero giuste e perfette l'una per l'altra?»
«Jack è giusto per te o è sbagliato? Be', dipende. Chi è questo Jack di cui stiamo parlando? Chi è questo te? Quale versione? In quale epoca? In quale luogo? Quale dei tuoi tanti riflessi è quello corretto? Ieri eri quella persona, oggi sei questa, e domani... chi lo sa? Ma il matrimonio promette costanza, sicurezza: sarai amato per sempre. E il momento in cui ne abbiamo la certezza è quello in cui inizia a sfuggirci. La nostra certezza ci rende ciechi di fronte al fatto che il mondo cambia, cambia, cambia.»
Io dell’amore non so niente e niente voglio sapere.
A un certo punto, verso la fine del testo, Elizabeth raggiunge il dottor Sanborne, suo ex datore di lavoro ormai in pensione ma mai davvero fermo, ma finalmente innamorato dopo aver passato tutta la vita a fare esperimenti per dimostrare che l’amore non esiste. E quando gli si siede accanto gli domanda, esausta e senza niente, in che cosa si può credere alla fine di tutto. Alla fine di un mondo confuso e spaventoso, di un mondo così definito da farti vedere in Blu-ray tutto l’elenco dei tuoi inciampi, così spezzato e polarizzato da consumarti fino all’osso, fino al cuore, fino a quel “non succederà a noi” che è sempre stato certezza e adesso finisce con un punto di domanda.
«Quindi se nulla è reale, se la sicurezza è solo un'illusione, cosa facciamo? Non crediamo in niente?»
L’ho capito in quel momento. A quella pagina, a quella frase. E pure quando gli dissi “vai, sei libero da me” perché altrimenti avrei polverizzato lui e le margherite di maggio del Santa Chiara; quando ho preso quel treno pur sapendo che non mi portava da nessuna parte; quando non ho sentito più niente se non la paura e ho cambiato casa, facoltà, ragione e pure modo di parlare.
Adesso, la notte, quando il mondo fuori esplode, si massacra da solo, ci richiede a gran voce, mi mette in crisi e fa paura davvero, io sento il suo respiro. So che è vero perché appoggio la mano sulla sua schiena e lo sento, perché quando c’è solo il buio lo imito e torno in vita, perché quando se ne va in giro per il pianeta piccolo che abitiamo non è terrore ed è la prima volta e l’ultima volta insieme.
Non perché l’ho scelto, non perché è un caso, ma perché lo voglio.
Così ogni volta diventa amore. Così ogni volta si libera, ogni volta si trasforma e io mi adatto, ci cresco dentro e tutto attorno, mi scopro limpida nel chiedere, nel confondermi e nell’errore.
Innamorata e saggissima, azzardata e ferma sui minimi dettagli. Inconsapevole di molto, pronta a tutto: sopratutto al dubbio e alle sue verità.
Come quella che dice “l’amore vero non esiste e non è esistito mai”.
A trentatré anni e milioni di sogni dopo posso accettarlo.
«Credi in quello che vuoi, mia cara, ma credici con delicatezza. Credici con consapevolezza. Credici con curiosità. Credici con umiltà. E non fidarti dell'arroganza della sicurezza. Insomma, mia cara Elizabeth, se vuoi che gli dei ridano davvero di te, allora chiamala pure la tua casa per sempre.»
Questa non è una recensione.
La vita mi mette sul tavolo pagine e frammenti; ogni tanto mi ci ritrovo.
A questo giro le parole di F., un libro che ha stravolto l’autunno, io che sto scrivendo un romanzo con dentro una storia d’amore e mi sembra di stare in una scintilla. Poi i libri sempre i libri, io che ho un indirizzo di casa e lui che quando dorme la notte brilla.