Sulla parete della stanza in cui sono cresciuta, proprio sopra la finestra che dava sul giardino col pino, il fico e il pesco che poi è finito nel mio primo romanzo, c’è una scritta che ho tracciato a diciotto anni quando tutto era impossibile e confuso.
Diceva “Credo che il proprio nome sia più bello se a pronunciarlo sia qualcun altro, Esperance” e arrivava dal messaggio di una delle persone che mi ha insegnato il non amore nella modalità più pericolosa di tutte.
Ma a diciotto anni, quando hai appena deciso che università fare e tieni lontani i desideri dalle necessità non ci pensi molto. Io per esempio non ci pensavo molto alla conseguenza di certi baci sui cavalcavia ancora da costruire o al peso di alcune domande che non potevo proprio farmi ad alta voce.
Però anni dopo ho pubblicato un libro e chi incontravo mi chiedeva “Com’è che si scrive quest’altro nome? Vuol dire qualcosa?” e io rispondevo e tiravo fuori la storia precisa che si era incastrata in una piccola parte della testa.
Avere un nome è una responsabilità. Avere un nome con un significato evocativo, potentissimo aiuta a gestirle e a renderle più belle quelle responsabilità.
Questo è stato quello che ho creduto in tutti questi anni. Questo è stato quello a cui ho pensato ogni volta che davanti a sconosciuti, pubblici più disparati, bambini e lettori ho raccontato la storia del significato di “Hakuzwimana”.
Un nome diventato cognome perché “In Italia quella ‘k’, quella ‘z’ e quelola ‘w’ hanno messo in agitazione tutti”.
Un nome diventato “H.” perché troppo difficile, troppo lungo, impossibile da ricordare e poi “che vuol dire?”.
Eh.
Che vuol dire?
Uno dei ricordi più nitidi della mia infanzia è legato a me che provo a scrivere i miei nomi sul quaderno a quadretti con i bordi durante l’estate tra le scuole materne e le scuole elementari. La linguetta di fuori, l’impugnatura stretta con le nocche lucide, gli occhi concentrati sul foglio e il caldo della pianura padana che mi passava tra i ricci e le scapole. Poi una fatica immensa per far stare tutte le lettere di tutti i tre nomi in una riga sola, ma che soddisfazione.
“Un nome non è soltanto un nome” ho scritto come incipit di una storia che avevo raccontato solo a lui e alla mia agente e chissà se vedrai mai la luce.
Una frase che ho scritto prima di partire per il Rwanda, prima di sentire l’aria densa di una certa parte di mondo e rompere almeno quattro o cinque risposte. Un nome non è soltanto un nome, mi dicevo. Se poi è pure bello ha qualcosa in più da dare, aggiungevo.
Perché io da scrittrice, da persona che con le storie ci ha costruito tre quarti della sua personalità sul mio nome ci ho costruito una presentazione di me eccellente, luminosa, cinematografica e sbalorditiva.
Ne sono consapevole perché ho imparato a raccontarne la storia negli anni.
Un incipt meraviglioso, una performance come poche altre.
Ne sono consapevole perché ad ogni “è bellissimo!” rispondere “sì, lo so me l’hanno dato i miei genitori” è stata sempre una garanzia.
Asso nella manica, passepartout per starti simpatica.
Ne ho riconosciuto il potere ogni volta in cui mi sono sentita persa e potevo aggrapparmi a una storia nella Storia per sentirmi meno sola ma anche migliore, fortunata o forse speciale.
Porta aperta sul passato nero, stella rara senza bisogno di cielo.
Quando mi chiederanno “com’è stato questo viaggio in Rwanda?” forse tra le parole più vere che dovrò usare c’è spietata.
E se per un attimo penserò di stare esagerando, il ricordo di me che chiedo a mio fratello mai immaginato e ritrovato il significato del mio nome, mi riporterà al punto certo, allo stupore chiaro, alla certezza di nuovi pensieri, di un’altra me in futuro.
In Rwanda le persone hanno due nomi e nessun cognome.
Quando ho scoperto questa cosa anni fa la prima domanda che mi sono fatta è stata: e come fanno a ritrovarsi, a riconoscersi, a non confondersi, a non perdersi? Come ci riescono con gli appelli, con i concorsi, le gare, i nipotini, i titoli di coda, gli elenchi, alla posta, nelle folle fuori dagli edifici in fiamme, per registrarsi a un evento, per la pensione, al telefono, quando si nasce o quando si muore?
Che cosa assurda tutta questa convinzione con cui sono entrata in un mondo che è stato mio per tre anni e poi ho dovuto abbandonare.
Che mirabolante fatica cambiare punto di vista, abitudini ed entrare nelle regole degli altri, nella burocrazia degli altri, nei sistemi organici, funzionanti e efficienti degli altri.
“Si fa, si fa eccome” mi ha spiegato Theo quando mi ha portato al centro anagrafe della capitale per fare una cosa assurda che non avrei mai immaginato di reealizzare nemmeno nelle prossime cinque vite.
Si fa eccome, perché in Rwanda il nome in francese appare ovunque in stampatello minuscolo e il nome in kinyrwanda è in maiuscolo. Così grande che non puoi non vederlo, non pensarci e tentare di capirlo.
Così io divento Esperance HAKUZWIMANA, o meglio ancora HAKUZWIMANA Esperance.
E Hakuzwimana è il mio primo nome. Il nome che mio padre ha scelto per me. Il nome che evoca il miracolo di una figlia femmina in una terra e in un tempo di maschi e povertà. Il nome che ringrazia Dio, che rende gloria al bene più grande che ha ascoltato la preghiera di un padre di famiglia con il cuore stanco.
Un altro tipo di augurio da quello che avevo sempre saputo, da quello che mi avevano detto per colmare il vuoto, per placare le domande che mi uscivano dagli occhi grandi.
Hakuzwimana che in Italia è stato puntato, storpiato, saltato, evitato, cambiato e barrato, in Rwanda è il nome con cui tutti mi chiamano e con cui mi dicono che mi devo presentare. Ancora prima di Espérance, ancora prima di Ripanti.
Una svolta, una botta, una cascata di acqua fredda che mi ha svegliato dal sogno e dalla piccola menzogna che ho portato avanti per anni non sapendo, non immaginando.
Quando mia nonna mai sperata e stretta forte mi ha chiamata ripetendo quel nome, quando mio fratello liberato dal male e sempre voluto l’ha scritto per la prima volta su un foglio di carta, quando gli adulti che ho incrociato l’hanno ripetuto tastandone il significato sotto la lingua io sono diventata altro.
Per farlo ho tagliato via un pezzo di storia nella Storia che era diventato tutto di me.
Per riuscirci ho dovuto dire alla me scrittrice “lascia andare e rinuncia” e ho lasciato andare e ho rinunciato.
Per capirlo ho ripreso in mano una biro e su un foglio di carta questa volta senza bordi, ho imparato a riscrivere da capo il mio nome e in qualche modo me.
Che dolorosa meraviglia scoprire che per venticinque anni mi sono raccontata e ho raccontato una cosa non vera a chiunque.
Che scoperta fantascientifica quella di un’altra vita dentro la mia vita da dover misurare da capo senza metri e senza equivalenze.
Che sollievo di diamante sentire dalla voce di mio fratello mai trascritto e benedetto che comunque, nel bel mezzo di tutta questa confusione, un’altra piccola perla rara c’era.
“Tu lo sai che hai un altro nome ancora?”
“Cosa vuol dire un altro nome?”
“Che noi ti abbiamo dato un altro nome tutto speciale, che usavamo solo in famiglia”
“Ok”
“Lo vuoi sapere?”
Chissà come si dice in kinyarwanda “Non aspetto altro”.
Non lo so. Però alla fine del foglio, dopo decine di righe pieni di tutti miei nomi e i miei cognomi mi sono sentita un po’ più grande e più leggera.
Li ho immaginati stringersi, dirsi “adesso ha tutti noi” e sghignazzare al pensiero delle mie firme, dei miei documenti ufficiali e di quando mi chiamo tra me e me nei miei pensieri.
Chissà come si dice in qualsiasi lingua del mondo “io divento quella che sono a prescindere da come mi chiamo”.
Tanto ho capito che finché mi chiami tu cuore, io non sono.
Il viaggio della vita di una persona della mia vita a questo giro è di Mattia:
Espérance