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Ombre (un pezzettino alla volta)
Naratashye

Ombre (un pezzettino alla volta)

Prima devo srotolare questo gomitolo di contraddizioni mie e non mie ma che mi sono state appiccicate addosso, perché ho bisogno della verità libera dall’odio, dal sangue, dall’idea di essere salva.

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Espérance Hakuzwimana
feb 22, 2025
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Ombre (un pezzettino alla volta)
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Ci sono arrivata quando dormivo.
Me lo ricordo chiaramente perché Theo ha alzato così tanto la voce da svegliarmi.
La cosa che ci ha tenuto a dirmi è stata piccola e semplice “Quello è il confine”. Nel suo inglese che adesso devo impegnarmi per ricordare bene come cadeva.
Tra tutte le cose raccolte in quei venti giorni in Rwanda il confine con la Repubblica Democratica del Congo è stata la cosa più facile da registrare.
Almeno fino a quando non sono arrivati dei ragazzi in uniforme a controllarci.

Io nei sedili anteriori di una macchina scintillante ed enormi con tre bambine di sette, undici e dodici anni. Seduta vicino al finestrino, gli occhi semi aperti e il cuore che improvvisamente inizia a battere fortissimo. Io che non capisco bene che cosa sta accadendo, io che mi rendo conto che ho paura, io che improvvisamente mi chiedo cose sensate e cose assurde come ho preso il passaporto?, gli ho scritto un messaggio?, qual è il numero di mio padre, dove ho lasciato quel libro?, ho acqua nello zaino?, ho chiesto scusa a M?, se me lo chiedono che cognome uso?

Si parlano Theo e il ragazzo giovanissimo che porta sulla spalla un’arma che non saprei descrivere nemmeno ora a distanza di mesi.
Si parlano e Theo tira fuori il suo tesserino da giornalista per dire “va tutto bene, siamo in viaggio, questa è la mia famiglia, vogliamo vedere solo il lago”.
Lo dice in una lingua che non conosco, e ci protegge con dei suoni che potrebbero essere tutto. Una parte profonda di me, una parte che è incastrata nelle ossa, mi riporta indietro in un tempo che non quantifico e mi ricorda un terrore antico. Un senso di pericolo che poi a ottobre mi ha fatto passare, tra i tanti, due pomeriggi orribili e a dicembre, una notte, mi ha fatto svegliare con gli occhi sbarrati e non vedevo più niente di niente di niente, se non sangue e corpi mutilati.

Ci sono arrivata quando dormivo a Kivu.
Perché viaggiare in macchina mi fa sempre quell’effetto lì, perché della guida di Theo per assurdo mi sono fidata subito anche se lo conoscevo da pochissimo tempo. Così dormivo. Perché siamo partiti aprendo delle lattine di banana beer e facevano 14 gradi, e io ne ho bevuta una intera perché al chiosco mi hanno detto “bevi, bevi, se sei rwandese devi bere” e chi ero io per dire di no?
Io chi ero per dire “no non è vero, io non sono niente di niente. Né ruandese né italiana, né di questo mondo né dell’altro. Io bevo, bevo tutto quanto e spero di arrivare alla fine di questo viaggio con qualcosa di valido in tasca, in bocca, alla fine dello stomaco e nel sangue. No, non è vero, non sono niente, ho preso due aerei ma non riesco a sentire niente. Ho cambiato gli occhi ma è finita l’aria. Ho strappato via i nomi, le unghie dalle mani del destino stupido, il dolore dall’ombelico e tutto il cielo che cadeva. Ma non sono niente di niente e non posso dire di no, non dico nulla, non dico nulla.”

Se chiudo gli occhi adesso mi ricordo la polvere, la terra, un cancello bianco, decine di persone in attesa con arnesi, secchi, biciclette, bambini, verdure e altre cose addosso, appresso. “Da qui si passa dal Rwanda alla RDC” dice Theo tagliando le parole, obbligandomi a decifrare “È un punto molto importante” e lo spiega alle sue figlie e a sua nipote più che altro, ma io sono in mezzo a loro e prendo appunti. Rubo questo rapporto tra padre e figlie che si parlano in kinyarwanda, in francese e in inglese e dove posso carpire e capire ci sono, ci resto e provo a tenere traccia. Lo faccio anche con questo punto nevralgico, con questo angolo di contatto che mi sembrava innocuo prima di un aereo di ritorno, prima dell’autunno, del telegiornale muto.

Invece, un giorno mi sono alzata ho aperto i social e ho scoperto che avevo dei conti da pagare. Non tanto con quella cosa delle origini, piuttosto con le conseguenze della mia storia. Quella con la esse grande, quella che oggi mi arriva dritta in faccia e mi lascia senza parole.
Un giorno mi sveglio e so che quello ciò capita da anni, da decenni, nella Repubblica Democratica del Congo e sapere, vedere, leggere e capire che il Rwanda ha un ruolo e mi riguarda. Mi mette in difficoltà, mi fa fare domande che non voglio, mi obbliga a informarmi e mi ricorda che la Storia non si ferma mai e spesso si ripete nel peggio e dentro ci entrano anche quelli che si sono salvati la prima volta, questa volta esattamente dalla parte opposta e che scherzo è? che assurdo gioco è?
Più che altro perché ho tre libri da scrivere, un orologio da comprare, un’ora e un quarto esatta per fare nuoto, la spesa al mercato da fare, undici mail che aspettano risposta, il bagno da pulire ogni due giorni, quella telefonata che mi viene in mente solo prima di andare a dormire, due treni da prenotare, troppe sessioni di pianto procrastinate, i vestiti lavati da mettere via, un bacio in sospeso e tutta la vita. Però io in mezzo non so come mettercela questa guerra che dura da prima di me e brucia i confini, violenta le donne, toglie le risorse e mette il silenzioso all’occidente.
“Non ho spazio anche per questo” ho detto a lui e al cuscino l’altro giorno facendo il morto tra le lacrime.
Non ho spazio per chiedermi quanti morti ci sono stati realmente e quanti ce ne saranno ancora. Non ho spazio per rileggere sugli articoli online ancora le parole hutu e tutsi. Non ho spazio per chiedermi chi sta al confine, cosa succede nei dintorni e se per sbaglio qualcuno che conosco, un sangue che mi appartiene passa da quelle parti. Non ho spazio nemmeno per espormi, per dire io sono rwandese di nascita, pure di documenti ma non c’entro niente, non sono d’accordo, vorrei fare qualcosa, vorrei cambiare ‘sta storia. Non ho spazio per farmi un’idea, per viaggiare tra una testata e l’altra in due lingue non mie tentando di capire chi mi sta dicendo la verità. Non ho spazio per fraintendere, non ho spazio per confondere il buono con lo sbagliato e il giusto con tutte le ombre.
Però devo.

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