Tele bianche (a volte macigni, a volte briciole)
La responsabilità più bella degli ultimi anni
“Buongiorno. Volevamo presentarci: noi siamo i bambini della quarta C”
Grace dice sempre che si vede.
Domi una volta mi ha detto “era ovvio”.
Pietro, dopo un incontro assurdo, dopo anni che non stavamo più insieme, mentre eravamo su due pouf seduti a parlare proprio davanti a loro, mi ha detto “sei brava”.
Una maestra a Milano se n’è uscita con “si vede proprio che stai bene quando parli con loro”.
“Li incanti” mi ha detto una sconosciuta che si era fermata a sentirmi a un festival.
Io avrei voluto risponderle che erano loro ad incantare me.
Anche se a dieci anni tra di loro sbuffavo perché mi sembrava di starci stretta in mezzo. Sono dovuti passare quasi vent’anni per avere di nuovo l’età giusta per tornare a frequentarli. Adesso che ce l’ho, adesso che questa età finalmente combacia, me la godo tutta. Tipo una seconda infanzia.
O forse la prima.
Un sogno latente
Scrivere un romanzo per ragazze e ragazzi, bambine e bambini, mi ha permesso di andare nelle scuole, nelle biblioteche e agli eventi legati ai premi in giro per (quasi) tutta Italia.
Milano, Salerno, Padova, quella scuola luminosissima a Torino, Campi Bisenzio, Perugia, in piazza la prima volta a Reggio Emilia, Bergamo, Firenze, Venezia, quel pomeriggio alla Libreria dei ragazzi e delle ragazze di Brescia, Como, con i mini umani che leggono Internazionale, Roma, Cento, Arezzo, Rimini e così tanti altri spazi, così tanti altri occhi che a volte mi gira la testa e mi devo sedere.
Scrivere per i piccoli, per quelli che hanno gli occhi all’altezza del mio cuore o della mia pancia, è la responsabilità più bella che mi sono presa negli ultimi anni.
”Ti ridà indietro le stesse soddisfazioni della scrittura per adulti?” mi chiedono.
“È vero che è un settore un po’ snobbato?” insinuano.
“Qual è la cosa più bella?” vogliono sapere.
A Cento sono uscita da i drappi di un sipario e davanti avevo più di cento bambine e bambini che urlavano il mio cognome che in verità è un nome, pronunciato perfettamente e non ho pianto perché non sapevo da dove iniziare, perché non avrei saputo finire.
A Salerno una bambina si è scritta una frase sul braccio che dice Camille, una delle mie protagoniste, e quando me l’ha mostrata io ho messo le mani davanti agli occhi perché c’era tutto, c’era troppo.
A Milano un ragazzino si è avvicinato e mi ha detto “sa che è la prima volta in cui trovo la mia lingua - l’arabo marocchino - scritta davvero bene dentro a un libro?” e per fortuna gli stavo scrivendo un autografo e la biro era un remo in mezzo a tutto il mare.
A quel premio un bambino biondissimo si è avvicinato a me e la sua mamma mi ha detto “grazie perché col tuo libro e il suo protagonista Timo siamo riusciti a spiegare ai compagni di mio figlio la storia delle sue protesi e della sua ipoacusia” e ogni tanto, quando ho paura di aver sbagliato tutto, penso a lui che vuole fare una foto con me, che mi stringe e mi sorride e disegna la mia idea di cerotto per il mondo.
È sempre stato un sogno latente. È sempre stato un pensiero fortissimo poterlo fare, poter dare a qualcuno la sensazione che avevo io, nel 2001: la bici presa dal garage, il cancello di legno, via Rinaldini, lo stradone, casa di Enrico prima della curva, l’acquedotto, girare a destra, il porticato sempre aperto, le porte di vetro dell’ASL, la bicicletta sulla ghiaia, la porta di vetro, la seconda porta di vetro e poi finalmente la biblioteca, i libri sempre lì. Sempre lì.
Al pensiero che al mondo, proprio in questo momento, ci sia una bambina di nove anni che, a gambe incrociate, stia leggendo una pagina che ho scritto io è qualcosa che non si contiene. Una sensazione strabiliante e forse uno dei più grandi privilegi di questo lavoro che non è solo un lavoro, ma l’avventura più colorata e faticosa che potessi mettermi sulla strada.
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