Tutta la faglia di S.Andreas
A volte i compleanni dei padri combaciano con le cascate delle figlie salve e lontane.
Al bar.
Trascrivendo un appunto per un lavoro imminente.
Mentre Emanuele beveva da una tazza bianca e Grace parlava con Mia detta Cicci, il suo cane.
Con un sole così bello che Torino lo sa come fregarti in un attimo.
Tra le comitive di ragazzi e bambine in gita.
Perché a volte mi distraggo e in quello spazio mi ricordo di ciò che è rimasto fuori.
Sulla mia bici rossa.
Non quando volevo comprare l’ultimo libro di Jason Reynolds alla libreria Luxemburg che ha cambiato indirizzo.
Non perché me lo sono segnato su calendar come tutte le cose che devo ricordarmi per non fallire.
Non all’improvviso, piuttosto lentamente come tutte le cose che fanno davvero male.
A metà mattina; il momento che amo di più perché tutto è ancora possibile.
Davanti a quella rotonda, con la pancia piena, gli occhi pronti all’allergia primaverile e una fatica piccola sul polso destro per colpa di quello scontro in piscina.
Dopo che il barista ha visto il mio tatuaggio e forse è partito da lì il pensiero. Tipo quando vado nelle scuole e mi tolgo la felpa e qualcuno sussurra sempre “ma ha dei tatuaggi” e chi glielo spiega che sono lasciti?
Non perché mi impegno a dimenticarlo.
Senza dubbio non perché ti ho fatto un regalo.
Di sicuro perché a terapia vieni fuori nei modi più assurdi e incommentabili.
Non perché ogni tanto mi sembra di vivere con una versione di te che la bambina che sono stata ha salvato tra la memoria e le scelte inconsapevoli e mi viene sempre in mente quel verbo inglese: “to heal”.
Non da questo indirizzo, da questa casa, da questo letto, da questo posto sicuro che è finalmente mio e non lo credevo possibile in questa parte di anno e di mondo.
Probabilmente perché tu adesso hai settantatré anni e io trentatré, e in mezzo c’è tutta la faglia di San Andreas.
O perché non hai più parole per me e io invece sì ma non ci stanno.
Il bambino che l’altro giorno a Milano Centrale è stato tenerezza e mi sono chiesta se fosse così anche per me, anche tra noi e la risposta è stata sì, senza alcun dubbio. Per questo fa così male ancora.
Per quel pezzo in “Tutti i nostri segreti” quando Hakan racconta al padre Hüseyin una parte di quello che gli è successo alla stazione di polizia tedesca:
«Mi hanno picchiato, baba»
Hüseyin impallidì. Distolse lo sguardo, volgendolo altrove. Non voleva guardare la ferita, non voleva sapere cos’era successo. Continuava a fissare il vuoto. […]
«Perché me lo vieni a dire, Hakan?», ripeté Hüseyin. « Per umiliarmi ancora di più?»
«No, baba» gli rispose. «Non volevo umiliarti. Te l’ho detto per fartelo sapere».
«E ora?», chiese Hüseyin. Hakan studiava la fantasia della mouquette, tanti piccoli fiori che andavano a formare un fiore più grande.
«Ora che lo so cosa cambia?», riprese Hüseyin con voce metallica. «Cosa dovrei fare? Dimmelo, Hakan».
Hakan scrollò le spalle. Provò a ripetere mentalmente le parole di suo padre, sperando di capirle meglio. Ma non le capiva.
«Perché mi metti in una situazione del genere?», chiese ancora Hüseyin. «Io non posso farci nulla. Lo capisci o no? Perché mi devi mettere davanti al fatto che non posso farci nulla? Dove vuoi che vada? A chi mi dovrei rivolgere? Dovrei andare alla polizia? A denunciare la polizia? Che vuoi da me?»
Quel grido di dolore acuto che mi ha fatto interrompere la scrittura di questo testo quando ho pensato alle nostre quattro iniziali sul vetro impolverato della macchina in vacanza.
La luce sui palazzi eleganti del centro che mi fa stare bene ed è sempre speranza e mi piace il pensiero che in qualche modo possa vederla anche tu e farla un po’ tua.
Tutte le volte che penso a come mi hai insegnato ad essere sul sedile del passeggero e non sono mai più stata tranquilla in viaggio come quando guidavi tu.
Una certa idea di mancanza che non so dire, che non posso dire, che non mi va di dire. Non tanto perché sarebbe uno spreco ma perché tutti i miei sentimenti, anche quelli più assurdi, meritano un giaciglio per i tempi bui.
La tua grafia, che non ricordo più. Ma la firma sì, e non potrebbe essere più diversa dalla mia già a partire dal cognome.
Perché per noi non era la polizia ma le persone che avevamo scelto di amare in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, non per il sangue ma per l’amore. Non per il sangue, ma per l’amore?
Forse il ciauscolo, di sicuro il fragolino, quel pane e salame a Ferrara, i viaggio Brescia-Ancona e quel tuo libro delle superiori (era economia aziendale o francese?) tutto ingiallito che non mi era servito ma solo perché non era il mio.
I tuoi capelli radi e i baffi bianchi dell’ultima volta che però ho avuto bisogno di tempo per capire che mi parlavano del tempo passato.
Il 19 di marzo che è un giorno come un altro e che sollievo.
Forse perché ho scoperto che leggi quello che scrivo e non sai quante volte vorrei dirti “Vedi? Avevo ragione io: sono davvero una scrittrice!” ma tanto una ferita del genere non si cura mica con una frase.
"Che vuoi da me?"
Il mio regalo più grande per te è che non voglio niente.
Dio mio quanto fa male, padre mio quanto mi fai bene.
Nell’esatto punto in cui ti ho incontrato per la prima volta di questa mia vita che si rinnova tutta e di continuo, tranne il cuore.
Non voglio niente.
Non ti ho salvato dalla nostra polizia ma un modo per farlo io l’ho trovato e non mi interessa proprio cosa ne pensi. Quello ormai ha smesso di farlo qualche anno fa.
Non so se lo sai, ma a volte i compleanni dei padri combaciano con le cascate delle figlie salve e lontane.
Non sai che gioia, non hai idea della fatica papà.
Probabilmente durerà tutta la vita ma ci sto lavorando.
Buon compleanno.
Espérance
Un mega abbraccio.
Queste parole mi risuonano, sono lama e conforto per me: grazie ❤️🩹