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Scarti (non devo provare niente a nessuno)
Una parete tutta per me

Scarti (non devo provare niente a nessuno)

Perché essere consapevole non combacia con la carneficina quotidiana del mio corpo, del mio sapere, del mio talento e della mia anima che tengo al riparo da sempre.

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Espérance Hakuzwimana
mar 16, 2025
∙ A pagamento
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Scarti (non devo provare niente a nessuno)
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C’è una frase di Toni Morrison che a 23 anni mi ero scritta su un foglio a righe e poi l’ho appiccicata sulla mia scrivania sotto la finestra di un appartamento dietro la stazione di Trento.
L’avevo fatto perché mi suonavano bene quelle parole di rabbia che non sentivo mie ma che sapevo comunque appartenermi, in qualche modo. Da qualche parte in fondo alla persona che già ero ma che ancora dovevo ritrovare.

Spesso quando dopo gli incontri, le presentazioni, i laboratori, gli speech o le letture, parlo con chi è stato tra il pubblico, spesso quello che mi viene detto è “grazie per restare in questo Paese e per fare tutto quello che fai”.
Che meraviglia, no? Ricevere un complimento, sapere che ti spetta e avere la consapevolezza che il tuo lavoro ha un senso.

Per la prima volta in 30 anni che abito qui - e con qui intendo Italia, nord Italia, pianura padana, più precisamente negli ultimi 10 anni a Torino - qualche mese fa ho risposto “ma grazie di che?”.
Mi è uscito così spontaneo e improvviso che non sono riuscita a fermarlo.
La mia parte assertiva, che gestisce il TOV con la voce degli adulti della mia infanzia sempre pronti a ricordarmi di essere affidabile, educata e possibilmente un po’ meno nera di quanto già ero, ha subito aggiunto un “mi scusi”.
Ma non erano scuse reali e difatti le ho lasciate cadere e al contatto col suolo hanno fatto un rumore stranissimo ma lontano.

In questi giorni ho pubblicato sui miei social un post dedicato all’immensa frustrazione del mio incontro quotidiano con un mondo dell’editoria e delle presentazioni incapace non solo di leggere correttamente il titolo di un libro ma anche di pronunciare il mio cognome che in realtà è un nome e ne ho parlato qui sopra con il cuore spalancato.

Si legge qui


Un discorso molto semplice nella mia testa, un tema che ha a che fare con l’incontro, con l’ascolto e con il rispetto. Parole di cui spesso ci si riempie la bocca fino quasi a soffocare ma che nella messa in pratica invece sembrano costarci una fatica immensa, sproporzionata, praticamente inutile visto i risultati finali.

Eppure, il punto della questione ho capito essere proprio un altro per me.
Ha a che fare con il mio nome, con il fatto che sono una scrittrice pubblicata da sette anni, con la mia storia, con l’attivismo performativo che inquina qualsiasi mondo lavorativo, con la solitudine, con il minority stress, con il razzismo istituzionale e quello interpersonale, con l’educazione che mi hanno dato da piccola, con quello accade nel mondo e sappiamo e con quello che accade nel mondo e non sappiamo, con le piazze per l’Europa completamente bianche, con la rabbia che non ho imparato a sfogare, con chi organizza festival sull’accoglienza e non ne conosce il significato reale, con i 1200 euro al mese che non bastano per niente, con la parte di me che è ancora in quella stanza con le tende color crema in quel quartiere di Kigali, con quello che sento ogni volta che incontro una persona uguale a me, con J. che mi aveva dato speranza, con la testa che mi fa male ogni volta in cui mi chiedo “che senso ha?”.

Perché tutto poi, mi porta sempre ad arrivare a quella domanda: che senso ha?

A 17 anni tenevo mia nipote in braccio e immaginavo per lei un mondo bello. Ora dovrebbe avere 16 anni e ho paura che si senta fregata da un bel po’ di cose.
A 19 anni credevo che studiare geopolitica mi portasse ad avere le risposte giuste. Mi sono riempita di domande, due anni dopo ho lasciato gli studi con il sogno di scrivere e di cambiare le cose con le mie parole.
A 24 frequentavo una scuola di scrittura privata che la me di 12 anni adorava e mai come in quegli anni mi sono sentita inadeguata, non vista, avvilita e privilegiata contemporaneamente. Dieci anni e un debito di 26k euro estinto dopo la delusione è ancora forte, ma anche la gioia di aver realizzato quel sogno.
A 27 anni c’è stata così tanta violenza attorno a me che l’estate del 2018 per me è un punto fisso nel calendario e nella parte più scura del mio cuore.
A 28 anni ho pubblicato il mio primo libro e mi sembrava possibile cambiare le cose.
A 31 anni ho interrotto il tour del mio primo romanzo perché le cose non si possono cambiare se il mondo ti mangia l’anima, le forze e la dignità. Anche se hai pubblicato con la casa editrice più importante d’Italia.
A 33 anni so che ho le energie giuste per scrivere le mie storie ma vengo continuamente distratta dal resto.

“The function, the very serious function of racism is distraction. It keeps you from doing your work. It keeps you explaining, over and over again, your reason for being. Somebody says you have no language and you spend twenty years proving that you do. Somebody says your head isn’t shaped properly so you have scientists working on the fact that it is. Somebody says you have no art, so you dredge that up. Somebody says you have no kingdoms, so you dredge that up. None of this is necessary. There will always be one more thing.”

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